I am a public procurement expert with almost 20 years of research and hands-on experience in a variety of regulatory environments . I am also a part-time University Lecturer on industrial organization and market design. am committed to ensuring 'thinking and doing' in procurement coexist under one roof, with my research and civil service practice constantly informing each other

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Gian Luigi Albano

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Gli appalti pubblici tra la Scilla della flessibilità e la Cariddi dell'ipertrofia regolamentare

2018-06-02 16:16

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Gli appalti pubblici tra la Scilla della flessibilità e la Cariddi dell'ipertrofia regolamentare

Chiunque abbia maturato un minimo di esperienza negli appalti pubblici in Italia è ben consapevole di quanto le "regole del gioco" siano frutto di un

Chiunque abbia maturato un minimo di esperienza negli appalti pubblici in Italia è ben consapevole di quanto le "regole del gioco" siano frutto di un ampio e, a dir poco, faticoso compromesso a livello continentale. Non siamo né soli né indipendenti nello scegliere come la Pubblica Amministrazione si approvvigiona di beni, servizi e lavori. L’architettura normativa si plasma a Bruxelles. E quindi, per capire l’attuale assetto normativo nazionale, bisogna leggere la genesi delle Direttive EU 23, 24 e 25 del 2014 e le principali linee strategiche promosse dalla Commissione Europea.  

Tra le parole chiave che caratterizzano il nuovo (almeno due anni or sono) pacchetto legislativo spiccano sicuramente "semplificazione" e "flessibilità". Parole queste che sicuramente fanno parte del gergo e della pratica quotidiani nel Regno Unito, ma che in alcuni paesi mediterranei suonano al più come il canto di una sirena.
Vediamolo in concreto un esempio di "flessibilità", frutto della trasposizione delle Direttive EU nel codice dei contratti pubblici (d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e, soprattutto, l’ulteriore "tocco" di flessibilità apportato dal (primo?) correttivo solo un anno più tardi (d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56). La Direttiva 2014/24/EU recita all’articolo 67: 

"Fatte salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di taluni servizi, le amministrazioni aggiudicatrici procedono all’aggiudicazione degli appalti sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa". 

Il testo sancisce quello che molti esperti hanno considerato - e non a torto - un passaggio epocale: la valutazione di aspetti economici qualitativi rappresenta il criterio di aggiudicazione di riferimento, quello da utilizzarsi in "normali" circostanze. Il prezzo più basso non è affatto escluso, ma viene relegato a un caso estremo, come dire, un’eccezione alla regola. Valutare aspetti qualitativi ed economici sembrerebbe profilare quindi un’ampia libertà di scelta per le stazioni appaltanti, o almeno questa era l’intenzione del legislatore continentale. Tuttavia, quello nazionale, spinto, forse, da un desideratum di andare ben oltre quello continentale, rilancia: 

"La stazione appaltante, al fine di assicurare l’effettiva individuazione del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi qualitativi dell’offerta e individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30 percento."(art. 95, comma 10-bis, d. lgs. 56/2017). 

Il crescendo di incoerenza logica in solo quattro righe è quasi eclatante. Si parte dall’ipotesi che la stazione appaltante persegua l’obiettivo di individuare il miglior rapporto qualità-prezzo. Quale migliore dichiarazione per convincere il buyer pubblico che, sì, la flessibilità è tutta da sfruttare. Ma l’illusione dura poco (sigh!). Il buyer pubblico - lo stesso che si era illuso di poter finalmente godere della tanto sbandierata flessibilità - al fine di "garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici" deve assegnare alla componente tecnica almeno di 70 punti su 100! E  la flessibilità evapora senza lasciare segni...


Ma, insomma, non attardiamoci sull’incoerenza logica del testo e soffermiamoci sulle potenziali conseguenze - tutte negative - che possono scaturire da tale vincolo, adottando un approccio dialettico (con il mio alter ego... che, in verità, la pensa non diversamente da me). 

Imporre un limite minimo alla componente economica serve alla stazione appaltante per conseguire beni, servizi e lavori di migliore qualità? Niente di più palesemente falso, almeno per chi è impegnato nella trincea degli appalti pubblici, e questo per svariati motivi. La qualità entra concretamente nel benessere della stazione appaltante quando viene effettivamente erogata. Dipende tanto dai criteri tecnici premianti quanto dai requisiti minimi. E dipende, soprattutto, dalla possibilità che venga monitorata e misurata in fase di esecuzione. Quindi il momento cruciale non è quello delle "promesse" (= fase dell’aggiudicazione), ma quello in cui le promesse vengono mantenute o rinnegate (= fase dell’esecuzione). 


Costringere le stazioni appaltanti a cercare ulteriori criteri premianti rispetto a quelli che avrebbero selezionato in assenza del vincolo, potrebbe costringerle ad aggiungere aspetti tecnici difficili - nel senso di troppo costosi - da monitorare (ad es., la rumorosità delle apparecchiature elettroniche) spingendo quindi le imprese a "competere in promesse" che difficilmente saranno verificate in fase di esecuzione. Peggio. La stazione appaltante potrebbe essere tentata da malefici criteri "progettuali" o relativi a "modalità di erogazione" anche quando la stazione appaltante è interessata all’esito della performance, e non a come la performance viene ottenuta (non preoccupatevi, prima o poi tutti cedono a questa tentazione...). Inserire criteri di questo tipo potrebbe trasformare la competizione in una "beauty contest" con maggiori rischi di discrezionalità nella valutazione tecnica. Inoltre - e non secondariamente - se la componente progettuale ha un peso non trascurabile le imprese potrebbero percepire un maggiore grado d’incertezza e quindi, paradossalmente, competere in misura maggiore sulla componente economica.


Una stazione appaltante che proprio non riuscisse a determinare almeno 70 punti per i profili tecnici (ma è possibile?) potrebbe essere tentata di ridurre i requisiti minimi degli aspetti qualitativi in modo da aumentare il peso di quelli premianti (attraverso un aumento dell’intervallo dei valori premiati). Paradossalmente, questa strategia potrebbe favorire la partecipazione di imprese con qualità mediamente inferiore rispetto allo scenario senza vincolo. E l’esito sarebbe tutt’altro che scontato.


Quando il buyer ha veramente piena flessibilità di scelta del rapporto qualità-prezzo, aumentare il peso e, plausibilmente, il numero dei criteri qualitativi non ha soltanto lo scopo di ottenere una "qualità" più elevata. Serve anche per permettere alla stazione appaltante di una più ampia varietà di soluzioni. La lezione più concreta che ci viene dall’altra sponda dell’Atlantico è che le stazioni appaltanti hanno un grado di conoscenza delle soluzioni di approvvigionamento  e strutturalmente inferiore al mercato della fornitura. Quindi il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ha anche una funzione di "apprendimento". 


E tuttavia, in alcune circostanze non è detto che una maggiore varietà di soluzioni accresca il benessere della stazione appaltante, soprattutto quando la competizione è di natura locale mentre il servizio deve essere erogato su un territorio più vasto. Come cittadini sareste d’accordo se, per esempio, i detenuti delle case circondariali avessero una composizione del menu del vitto molto eterogenea da regione a regione in virtù di esiti molto diversi delle gare espletate magari in maniera centralizzata, ma tra imprese (magari tutte PMI!) che competono a livello locale e che quindi potrebbero offrire - in virtù dei fatidici 30 punti tecnici - "soluzioni" molto eterogenee? 


Ma, forse, il paradosso più sorprendente è che in alcuni casi le stazioni appaltanti potrebbero preferire il criterio del prezzo più basso. In molte forniture (ad es., autoveicoli, fotocopiatrici e altro materiale informatico di largo consumo) il continuo avanzamento tecnologico  e la pressione competitiva, che spinge i leader di mercato a offrire soluzioni funzionalmente simili, non permette di differenziare i diversi beni disponibili sul mercato in modo così netto, quindi la stazione appaltante troverebbe razionale premiare criteri tecnici, ma con un peso molto limitato. Il vincolo 70-30 pone genera quindi un dilemma: sopprimere i limitati criteri tecnici premianti, adottando il criterio del prezzo più basso (con conseguenze in generale di minore partecipazione in gara); oppure "gonfiare" il peso di ciascun aspetto tecnico con il rischio di pagare un prezzo sensibilmente più elevato per un bene che è solo "marginalmente migliore" rispetto a quello dei principali competitor.  

Se è vero che le strade per l’inferno sono lastricate di buone intenzioni, allora il vincolo 70-30 ne è un degno esempio. Ma non perdiamo la fiducia in un secondo correttivo...

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